DIARI DI VIAGGIO

DIARIO AFRICANO

Diario africano

 

Bangui R.C.A. – aeroporto internazionale M’Poko

 

25 febbraio 2010

 

Arrivo col volo Air France n. 880. Lo sciopero dei controllori di volo a Parigi ha ritardato sia il volo da Roma che questo. Anziché alle 5.35 siamo arrivati alle 7.15.
All’aeroporto un’accoglienza insolita. Noto dall’oblò una fila di uomini vestiti di scuro e molti militari. Il mio vicino mi spiega che nel nostro aereo abbiamo portato la salma dell’ex presidente centrafricano Kolimba da Parigi. Di lì a pochi istanti, prima di lasciarci scendere, il portellone accanto all’ala si apre e ne viene estratta la bara sigillata. Non so nulla di questo signore, di cui non colgo nemmeno il nome. E tuttavia il pensiero maligno mi assale. Molti politici africani, con o senza golpe subìto, vanno a spassarsela in esilio dorato a Parigi … poi tornano da morti, magari per alimentare un po’ di retorica politica e patriottica a vantaggio dei successori.

Usciamo. Il clima è umido, non troppo caldo. Accellero il passo all’aperto per sbrigarmela con le formalità d’ingresso. Sempre la solita confusione. Prima qui, no prima là. Alla fine passo due volte per lo stesso sportello, poi supero col mio timbro sul passaporto la porticina da niente che separa la hall degli ufficiali di frontiera (passi l’espressione troppo occidentale) dalla sala bagagli e dogana. Ho già visto uscire dall’aereo la mia samsonite grigioazzurro. Per un istante mi chiedo se qualcuno l’ha fatta sparire in quei venti minuti almeno che ho speso per l’ingresso. Poi mi ricordo che se non esibisci la ricevuta bagaglio non ti fanno uscire. Beh, in questo son più seri che a Fiumicino o Malpensa.
Non ho franchi CFA, per cui dono un biglietto da cinque euro al ragazzo che mi accompagna alla dogana. La signora giovane e grassa in divisa mi chiede di aprire la valigia. Tocca il mio accappatoio in microfibra con leggerezza femminile, mi fa aprire lo scomparto, vede qualche libro e camicie. Mi lascia andare. Il ragazzo vuole altri soldi, col solito tono piagnucoloso. Sì, mi ricordo che deve darli ai militari di dogana. Gli allungo altri due biglietti da cinque euro. Ecco Antonios, fratello dell’Eritrea, aggregato alla Provincia dell’Emilia – Romagna, professore di storia della Chiesa al Gran Seminaire di Bimbo e a Bouar. Insiste nel trascinare la mia valigia. Prima che entriamo in auto altri due giovani chiedono soldi. Sgancio qualche altro biglietto da cinque euro e scappiamo prima che tutto l’affollato piazzale mi si butti addosso.
Frère Antonios è contento. La sua provincia di Eritrea ha sofferto molto per lotte intestine tra i frati. Non ho elementi né tocca a me giudicare. Ma sono contento quando mi dice che gli hanno chiesto di andare a Bologna per insegnare e la Congregazione dei religiosi ha dato il suo nulla osta. Fa propositi positivi. Potrebbe comunque venire qualche mese l’anno qui per continuare a formare i prossimi presbiteri d’Africa. Lo incoraggio. Mi chiede qualche parere canonico e glielo fornisco all’istante.

A Bimbo ad attendermi c’è molto più che la banda dei Carabinieri: il ministro generale, fra Mauro, con il definitore fr. Agapit e il nostro Raffaele, appena riconfermato Ministro Viceprovinciale di questa terra. Mauro mi abbraccia. Mi sfotte con Raffaele perché ho il clergyman. Mi tolgo subito la camicia che indosso da 20 ore. Facciamo colazione. Doccia in cinque minuti, abbracci e parto con Raffaele per Bouar.
La strada asfaltata è una piccola linea di esigenza umana, di velocità di trasporto, nel ritmo perenne della foresta che la circonda. Lasciata la massa umana multicolore di Bangui ci muoviamo verso Boali, Bossemptelé, Baoro. Poi l’asfalto termina e comincia la pista di terra rossa. E’ già piovuto due volte, mi dice Raffaele, un po’ in anticipo sulla stagione delle piogge, che la tradizione fa cominciare con “la St. Joseph”, il 19 marzo. I crateri e i piccoli canyon che ci fanno ballare alla grande mostrano che già i primi camions son passati su terreno bagnato.
L’Africa mi viene incontro. E a mano a mano che sale il giorno il caldo si fa più forte. E se pure devo tirar giù la manica destra della camicia per non scottarmi il braccio accanto al finestrino, se pure le ascelle si fanno umide, il mio spirito si distende come nei meriggi caldi dell’estate pugliese dell’infanzia. Il caldo scende sino al cuore, la terra si mostra col verde perenne dei suoi grandi alberi e quello tenero dell’erba figlia di queste prime piogge. San Giovanni Rotondo, la Provincia, le tensioni prima del Capitolo provinciale, la verità e le menzogne, tutto diventa piccolo e risibile di fronte al mistero della vita di Dio che risplende nella creazione. E questo fanciullo selvaggio e libero che è in me comincia a fottersene di tutto, tranne che della volontà di Dio e della natura che lo accoglie. Sì, c’è Dio Padre dietro la voce calda di femmina madre che mi chiama; c’è il Cristo Re dell’universo, il mio Kyrios Gesù, nel ritmo di Madre Africa che gioisce per la mia presenza e mi ripete: “Tu es chez toi mon fils. Bienvenu!”. Ed è di Spirito santo il mio grazie a Dio ed alla Chiesa, all’ordine, che mi hanno chiesto di venire qua a ricercare coi miei studenti neri il senso della Giustizia nella Chiesa.

Unicuique suum. Nel respiro della madre Africa ti respiro, mio Dio, e gioisce ogni fibra del mio corpo. Nel volo del nibbio che s’innalza alto nel cielo m’innalzo io a te, Signore. Ancora, sulla tua Parola, mi tufferò in picchiata come lui, per strappare alla terra il serpe antico. A Foggia, qui, ovunque tu vorrai.

Bouar, 26 febbraio 2010

La scenografia è la medesima: il convento solido e austero, senza fronzoli europei, la foresta all’intorno. Sono cambiati gli attori. I frati adulti son nello stesso numero, con qualche minima variazione, i frati studenti sono solo sei, mentre erano oltre venticinque. Alcuni son stati ordinati diaconi o presbiteri, Jean, Gervais, Olivier, altri come Francis e Nestor sono fratelli laici e, terminata la formazione, sono stati destinati ad altri conventi; ma il grosso è stato “epurato”. C’erano problemi seri relativi all’affettività o alla disciplina e sono stati risolti radicalmente. Thierry, Claver, Serge col suo sorriso da fanciullo, André, col suo intelletto acuto, tanti altri, andati. Il ministro generale ha lodato la Viceprovincia per la serietà con la quale ha risolto situazioni problematiche. Anche certi frati professi perpetui di vita non proprio sincera son stati allontanati, su loro richiesta. Penso con un sorriso amaro ad alcune circoscrizioni europee o americane che conosco.

Persone che si fa fatica ad inquadrare in uno dei due sessi … “creati da Dio”, gente dall’animo incostante, migranti da seminario a convento e da convento a seminario, piccoli uomini fragili fragili che sono sospinti, non dallo Spirito Santo che mena Gesù nel deserto, ma da questo o quel padrino benevolo che li fa arrivare alla professione perpetua, e allo stesso ordine sacro. Amen. Qui uomini sani, sospinti dal loro testosterone africano, sono stati amorevolmente e con chiarezza indirizzati ad un cristianesimo coerente vissuto da sposi e padri di famiglia.

Il canto delle Lodi e dei Vespri ci vede in pochi. Per fortuna, al quinto anno, posseggo molti canti ed inni ed aiuto con la mia voce il povero fra Edouard, che questa settimana fa da accolito, e fa fatica con la sua vocetta a prendere il ritmo del salmo. Quando prego coi frati, su certe note robuste, mi sembra di sentire papà mio, Nicola, con la sua voce tonda da tenore, che canta accanto a me. Dietro a lui, che si affaccia sul nostro coro africano, a danzare c’è il Paradiso.

Vado a visitare le sorelle francescane di Maigarò. Suor Giulia mi sorprende mentre fotografo il cespuglio di rose cresciute sul corpo del piccolo Antonio, il mio “nipote adottivo” africano. Mi saluta, mi abbraccia e mi dice: “Sono in due là sotto”. E mi ricorda che mesi fa è morta la piccola Marie Gregoire e l’ha seppellita accanto ad Antonio. La mamma della piccola era morta di parto. La bimba era ricoverata qui in ospedale. Ma una mattina Giulia l’ha trovata morta. E’ certa che l’abbiano uccisa i parenti. Una bimba di una mamma morta di parto è ritenuta colpevole, in genere portatrice di uno spirito maligno. Viva la superstizione, che uccide i bambini! A volte si uccidono anche gli adulti per motivi similari. Invidie, adulteri, ostracismi si consumano dietro il paravento della sorcellerie – stregoneria. La persona presunta strega o stregone finisce picchiato, in carcere senza giudizio, scacciato. Quanto vangelo ci vuole per liberare l’uomo.

Alle 2.45 di sabato 27 febbraio mi sveglio di soprassalto ascoltando delle urla. Il cuore ha un cattivo sentore, tanto che penso di colpo che stiano arrivando gli Zarghinà, i predoni. I suoni sono diversi da quelli che sento quando fanno festa per un defunto e ballano e mangiano tutta la notte. Ma soprattutto sento un senso di angoscia e di morte. Penso di affacciarmi al terrazzo, ma con l’accappatoio giallo ocra sarebbe come dire: “Eccomi qui” o, in caso di banditi: “Sparatemi, prego!”. Resto in attesa quasi un quarto d’ora. Poi le urla si accompagnano ai tamburi e si trasformano in un canto ritmico. Con fatica, dopo oltre un’ora, riprendo sonno.

Al mattino chiedo ai fratelli, sia del convento che della Curia, se hanno udito nulla. Niente. Nessuno, oltre me, ha ascoltato.
Al pomeriggio arriva la notizia. Alle 2.45 è stato ammazzato un giovane ladruncolo di 27 anni. Lo hanno accoppato selvaggiamente, a bastonate, proprio davanti al tribunale, a cinquecento metri circa da qui. Nel silenzio della notte le urla sono arrivate facilmente. Si chiamava Narcise, era il figlio sventurato di Antoine, la sentinella della Curia. Una vita di furti e furtarelli, un po’ di prigione. Il padre, onest’uomo, gli ha trovato una buona moglie. Niente da fare. La gente alla fine lo ha ammazzato come un topo, più che come un cane. Il nostro frate Agostino, decenni d’Africa sulle spalle robuste e la testa rossa, è andato a prenderlo dalla strada, macellato e insanguinato, e l’ha portato a casa col nostro furgone pick – up. Nessuno voleva macchiarsi del sangue di un morto ammazzato. Porta maledizione. Già … la superstizione.

Bouar, 3 marzo 2010

E a Bouar, come è noto, ci sono le Clarisse, che sanno tanto di Italia e di Lombardia, di Chiara e Francesco e … di mio padre. Eh sì, perché quel gentiluomo francescano di mio padre se n’è andato ai secondi Vespri di Santa Chiara 2007. Vengo qui a parlare alle sorelle di Padre Pio. En francais, perché ci sono suore africane. E mi sento papà che si siede vicino e mi ascolta, contento.
Il mondo, visto dal Paradiso, dev’essere piccolo piccolo. Papà sarà certo vicino a mamma e ai figli e nipoti a Cerignola – City, ma è anche vicino a me, e chissà a quante altre persone. Che senso aveva quel sogno di papà vestito da grande vescovo orientale (proprio un San Nicola!), con piviale d’oro e pastorale, in una grande processione celeste? Deve avere un incarico pastorale di un certo rilievo lassù …

Bouar, 8 marzo 2010

Alle 5.40 circa il cielo ha cominciato a mugugnare. Alle 6.00 comincia a piovere. Profitto del tempo della meditazione personale, che uso talvolta per pregare il rosario passeggiando prima della Messa, per andare sulla veranda. Ad est il cielo è plumbeo, grossi addensamenti cumuliformi si muovono con lenta, inesorabile potenza verso di noi. Ad ovest una linea di assoluta chiarezza mostra i monti lontani, verso il Cameroun.

Alle 6.00 comincia a piovere. Il ticchettio è all’inizio leggero, quasi incerto, sulle lamiere che compongono il nostro austero tetto, poi si fa insistente, mentre i mugurni diventano minacce di guerra. Masse d’aria si spostano attorno a me. Socchiudo gli occhi, apro le gambe un po’ più larghe delle spalle, muovo con ordine il corpo facendo perno sulle anche nel mio esercizio preferito di Tai Chi Chuan: muovere le nuvole. L’elettricità dell’aria, il potere degli elementi, l’ossigeno che si sprigiona dalla frattura delle molecole di acqua al primo impatto sulla polvere insatura, tutto esprime energia. La solita radura, che vedo chiarirsi ogni mattina, non mostra i colori delle bouganvillea come di solito. Tutto è grigio, ma Jahvé cammina come sempre. L’acqua non lo tocca. Attorno a Lui c’è come una bolla d’aria serena. Il mio Dio, che ha creato tutto questo, scende come sempre a deliziarsi del coro dei miei frati africani: “Soit fort, soi fidèle, Israel/ Dieu te mene au desert”.

Poi scoppia un mezzo uragano. Entro in stanza, chiudo le finestre. Sposto il portatile all’interno: comunque entrerà un po’ d’acqua. Mi affaccio ancora sulla soglia della veranda, che ormai è tutta bagnata. Gli scrosci d’acqua si fanno potenti, come piccoli torrenti. Le cataratte del cielo sono aperte e riversano potenza e vita. I fulmini si fanno più potenti e vicini. Ci sono persone che ne sono atterrite, gente che in età infantile s’infila sotto i tavoli. A me è sempre piaciuto, come un rigenerarsi del mondo, come un atleta esausto che fa una doccia calda.

Nella radura Jahvé passeggia ancora, l’immagine stessa della pace. E accanto al mio Dio e Creatore c’è il mio papà. Camminano insieme, parlano delle prossime vicende, della Chiesa, della mia Provincia, dei miei peccati e delle mie prove, di come alla fine “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. Parlano, con amore infinito, del mondo e della storia, dell’Africa. L’Africa che si sveglia stamani, dando lode a Dio “per aere nubilo” attendendo il sereno. Bonjour, mon Dieu … bonjour, Abba, papà. Je suis la, pour faire ta volonté.

Bouar, 19 marzo 2010

Oggi è la festa bella di san Giuseppe. Vado a Maigarò, finendo oggi il mio turno settimanale, per celebrare l’eucaristia alle 6.10 con le suore francescane.
San Giuseppe mi fa pensare a papà. Non solo per la festa recente con le consuete commercializzazioni e gli slogan sdolcinati per vendere bottiglie di amaro o cravatte. Giuseppe è il Vir Dei, è l’uomo di Dio, Uomo con la maiuscola, perché Iddio vede in lui, chiamato a vegliare come padre su Gesù, un’icona altissima del suo Figlio eterno. Uomo, perché col cuore pieno di amore, virile, lavoratore. Santo perché capace di flessibilità eroica nel farsi cambiare i progetti di vita da Jahvé. Santo perché, come dice il prefazio, è “l’uomo giusto”.

Per questo, all’improvviso, mentre leggo queste parole, mi scappano le lacrime. Il Papa ha parlato di Giustizia nel discorso inaugurale di questa Quaresima. Mio padre Nicola ci ha educati alla Giustizia in tutta la sua vita. Siamo marchiati in famiglia da questa etica severa che nel mondo anglosassone chiamano “the right thing”, la cosa giusta. Ma la Giustizia non è di casa né nell’Italia d’oggi, con le sue polemiche da vetrina televisiva sul processo giusto e il processo breve, né, talvolta, nella Chiesa di Cristo, provincia di Padre Pio compresa. Ci sono sorveglianti massoni a spingere Euronews e tanto giornalismo parlato e stampato contro la Chiesa Cattolica, ad usare e strumentalizzare spietatamente, esagerando, deformando, i fatti. Ma i fatti ci sono: in Nord America qualche anno fa, in Irlanda, nel mondo germanico ora.

Le suore a Maigarò esprimono il volto di Dio madre e padre. Bambini soli, abbandonati, malati, trovano nel loro sorriso la possibilità di credere che qualcuno li ama. Bambini come Stevie, a occhio mio sei anni circa, che sorrise il 26 febbraio, quando, appena giunto a Bouar portai a suor Giulia le caramelle che Francesca e Myriam, le mie nipotine, mandano ogni anno ai bambini africani. La prima andò a lei. Aveva un occhio quasi chiuso con la palpebra gonfia, e le labbra gonfie ben oltre la normale struttura corposa delle donne d’Africa, con piccole lesioni verticali rosacee, tendenti a sanguinare. Suor Giulia mi disse che aveva l’AIDS, ereditato geneticamente. La buona suora, infermiera e animatrice dell’Ospedale costruito dagli italiani, le diede un’altra caramella: “Due a Stevie”. E la bimba sorrise. Presi due foto.

Termino la Messa di san Giuseppe. Tolgo i paramenti. Giulia è ancora seduta per il ringraziamento mi dice qualcosa che non capisco. Mi avvicino: “Stevie è volata al cielo. Ieri sera”. La piccola è andata a festeggiare in cielo san Giuseppe. In quelle mani di uomo forte e giusto non c’è infezione per un neonato, solo sicurezza e amore, come nel cuore di Dio. Dopo giorni di tempo bello inframmezzato da qualche pioggia salutare, nella festa bella di san Giuseppe scende la poussiere, la polvere del deserto del Sahara portata dal vento del Nord. Anche il clima esprime mestizia per Stevie.
San Giuseppe, patrono della Chiesa cattolica … Sì, la Chiesa è qui, tra queste suore che sono tante piccole Madre Teresa, tra i volontari francesi, italiani e di altre nazioni che danno una mano con turni spontanei o regolati dalla agenzie di cooperazione internazionale, come la CDC francese. La Chiesa mostra qui il suo volto di sposa bella e innamorata del Cristo. Il volto delle donne nella Passione, Veronica, che asciuga il sangue dal volto del Servo sofferente di Jahvé, Maria la Madre, trafitta dal dolore, la Maddalena che non sa se non trasformare in dolore e compassione quell’amore tracimante che lui ha liberato nel suo petto. La Messa è sempre Messa. E tuttavia qui il pane e il vino sanno meno di sacrestia e più di terra. Qui parlare della Giustizia e di Giuseppe uomo giusto ha più senso che in certi estetismi liturgici da “professionisti del sacro”. Certe raffinatezze estetiche somigliano ai monili di Erodiade, quando non sono sostenute da un’esperienza di Chiesa vera, che trasforma la Liturgia in carità e il dolore e le speranze del mondo in oblazione sull’altare.

Io non lo sapevo, durante la celebrazione, ma suor Giulia aveva messo il cuore di Stevie nel mio calice. Stevie non ha bisogno di suffragi. E’ passata dall’innocenza del dolore alla gioiosa innocenza tra le braccia del Padre. In questo ospedale, segno dell’amore della Chiesa, ma anche della grandezza quotidiana ed evangelica di tanti italiani, religiosi e laici, che vi hanno lavorato e vi lavorano, ho due piccole tombe da visitare accanto al frugale roseto: Marie Gregoire … e il mio nipote adottivo, Antonio. Stevie è stata portata al villaggio dai suoi, ma ogni volta che guarderò quelle rose penserò anche a lei. Quanti angeli devono esserci in cielo. E quanti angeli neri!

Bouar, 28 marzo, Domenica delle Palme 2010

Il mio telefono italiano, che qui utilizzo solo come sveglia, suona alle 5.30. Sorrido: ho dormito otto ore di fila! E invece no. Prendo il consueto caffè che mi armonizza la pressione arteriosa nelle ore del mattino, lo divido con fra Pio che mi fa segno di abbassare il tono. “Ma è quasi l’ora di andare a pregare, sono le 5.45” gli dico. Macché, ha ragione lui. Il mio telefono Nokia ha aggiornato l’ora dell’Europa Centrale, adeguandosi all’ora legale, scattata alle 2.00. Guardo fuori, tendo l’orecchio alla foresta: la natura non inganna. Sono ancora i bisbiglii della notte, il manto del cielo è ancora scuro. Qui regna il sole, con la sua sposa luna, non ci sono ore di legge. Del resto l’Equatore, come dice il suo nome, mette … equità tra giorno e notte. Qui la differenza tra estate e inverno è di pochi minuti: il giorno e la notte si dividono le 24 ore senza ansie, metà per uno.

Dal giorno di san Giuseppe, dalla morte di Stevie, la polvere del deserto impera. L’orizzonte è corto, la foresta è fasciata di questa cortina grigia, il sole è pallido, un chiarore che non dà timore agli occhi oltre la coltre spessa. I libri, il frugale tavolo da lavoro, una rivista lasciata in evidenza, il cavo del portatile … la gola e il naso, tutto è rivestito di questa polvere rossa, finissima, onnipotente, silenziosa e pervasiva. Il tasso igrometrico è passato da 80 – 90 a 20 – 25. Devo adoperare le creme idratanti che mi ha dato il mio buon dermatologo, Leonardo, altrimenti i calcagni tendono ad aprirsi, la pelle sulle cosce si arrossa e geme: troppo secco.

Si prega per la pioggia, che cadrà abbondante … ma quando? In questo clima secco tra poco presiederò la processione e l’eucaristia della domenica di Passione dalle sorelle Clarisse. Era esattamente il 28 marzo, di qualche anno attorno al 1213, la domenica delle Palme in cui il vescovo Guido diede in San Rufino il rametto d’olivo a Chiara degli Offreducci. Era il segno che attendeva dal cielo. Scappò il giorno stesso, per seguire il profumo di Vangelo che Francesco si lasciava dietro. Immagino che ci vogliano molti anni per questa coincidenza … ed oggi tocca a me dare la palma ad una clarissa, ad una fanciulla, ad un uomo d’Africa, a chi Dio ha già indicato per toccargli il cuore. Ci saranno rami di palma vera tra poco, qui non ci sono olivi. Eppure l’olivicoltore sarà vicino a me: il mio papà, Nicola, tendendomi un ramo dell’oliveto avìto dal cielo. Papà, che ha preso il volo tendendo la mano stanca a sorella Chiara nei secondi vespri della sua festa, l’11 agosto del 2007. I suoi nipoti, Marco e Daniela, sono andati ieri con mio fratello Vincenzo, a prendere rametti nell’oliveto. Le Palme sono in Puglia, a Cerignola, anche la festa dell’abbondanza delle frasche. Quando scendi dal cielo verso l’aeroporto di Bari accanto al mare azzurro c’è un mare di olivi. Benedetto il mio Signore che ha posto questo castone di rami di pace, di olio profumato, di legno antico e solido tracimante di energia come ponte tra l’Occidente e l’Oriente, passerella di dialogo e incontro nel Mediterraneo. Benedette le mie radici pugliesi, che mi accompagnano ovunque, dal Grande Nord dell’Ontario all’Equatore africano. Senza le mie radici di olivo pugliese il mio volo non sarebbe conoscenza e incontro, ma solo un perdere la strada.

Da giorni una notizia si è stampata nel cuore. La rivista missionaria dell’Ordine, Continenti, parla della Repubblica Democratica del Congo, dello stupro usato come arma di distruzione morale dell’avversario e della sua stirpe, per diffondere l’AIDS e la depressione, per far scacciare donne abusate dal loro focolare familiare. Nel primo semestre 2009 5400 stupri denunciati, ma sono molti di più.
Mi chiedo a cosa servano le Nazioni Unite. Penso alla retorica bushiana di “esportare la democrazia”: dove? Dove c’è il petrolio o altri interessi strategici. In Sudan, in Congo, in altre nazioni l’uomo è calpestato … ma non frega niente a nessuno. Oh Chiesa di Cristo, il tuo peccato oggi non è quello della Maddalena. Il mondo e satana stesso possono attaccarti perché alcuni dei tuoi uomini si sono macchiati d’infamia nei confronti degli innocenti che dovevano proteggere ed educare. Lavati dal sangue, sorgi, Vergine e Madre, e ricomincia e predicare il Vangelo con freschezza. Lascia gli Osanna di quest’oggi, che svaniranno presto, e vestiti dell’urlo appassionato di vita di Maria: “Ho visto il Signore”. Gesù è vivo, e ci manda a trasformare la terra di Vangelo!

Ore 8.00 … ora dell’Africa Centrale. Monastero delle Clarisse.

Presiedo la liturgia solenne delle Palme. La processione comincia in giardino, dopo la benedizione delle palme e la proclamazione del vangelo dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Sono con me Edouard, Severin et Sanclaire, tre dei miei fratelli studenti cappuccini.
Porto una croce semplice adornata con un ramo di palma africana. Non ci sono olivi qui. Nel mio cuore sempre, assieme ad una spiga di grano duro e una talea di vite ad alberello pugliese.

Le clarisse aprono la processione, seguono i frati ed io, vestito di rosso, il colore più bello, più vivo del mondo. Dietro di me le suore francescane di Maigarò, con Judith, psicologa boliviana volontaria, le suore oblate di Sainte Thérese de Lisieux, alcuni religiosi betarramiti italiani, popolo di Bouar, tra essi alcune fanciulle preadolescenti.
I canti sono ritmati. Alcune clarisse africane agitano i loro strumenti a percussione tradizionali. Danza il cuore della Chiesa, danza il suo corpo, armonia dell’amore di Dio. Sacra è la danza come consacrato è il popolo. I rami agitati cantano già la Pasqua. Noi non ti abbandoneremo, Gesù, non ti rinnegheremo. Ci hai lasciato un fratello maggiore che potesse confermarci nella fede perché tu hai confermato lui. Pietro ti ha rinnegato tre volte per noi tutti. Può bastare. Che senso avrebbe dire: “Non lo conosco!”? La paura è già stata superata, grazie a Pietro, grazie a Giovanni. Il primo ha rinnegato perché il suo amore era ancora più piccolo della sua paura; il secondo ha vinto la paura perché aveva già bevuto il tuo cuore poggiando la testa sul tuo petto. Prima ancora che la porta del tuo costato fosse aperta, Giovanni aveva già gustato sulle papille del cuore il sangue e l’acqua. Quando il soldato ha aperto il tuo fianco il suo dolore ha iniziato a trasformarsi. Egli ha riconosciuto in quel fiume di sangue ed acqua la tua vita che ci veniva donata. La carne del Verbo grondava la vita del Dio Trino sull’umanità sofferente. La quinta piaga è la piaga regina della guarigione di Eva. Ora tutte e cinque le piaghe iniziano il canto della vita. Un canto silenzioso che intendono in pochi. Il centurione lo intende e grida già la fede: “Veramente costui era il Figlio di Dio” (Mc 15,39). Mel Gibson in “The Passion” lo vede cadere affranto e saturo di speranza sotto quel fiume che sgorga dal tuo costato. “Lavami, Gesù” dice il romano. “Lavami!” dice l’umanità che soffre e comincia a rendersi conto del suo peccato, dell’iniquità più grande tra le sue iniquità senza numero. E Giovanni comincia a scorgere tra le lacrime il volto della Chiesa che il tuo costato genera: Chiesa sul volto del soldato, Chiesa sul volto affranto della Madre e delle altre donne, Chiesa nel volto di Pietro rigato dalla notte orribile, Chiesa in Giuseppe che chiede il tuo corpo a Pilato. Decenni prima di essere scritto, il suo vangelo d’aquila comincia a sgorgare dal tuo costato aperto. Lo Spirito comincia con lui a ricordare ciò che avevi detto: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!” (Gv 12,32). Ecco il tempio di Ezechiele, dalla cui porta sgorga l’acqua della vita. “Sgorga acqua e sangue, un torrente/ che lava il peccato del mondo”. Tutta la liturgia della tua sposa è in qualche modo già racchiusa in quel momento. E Giovanni ricorda ancora quelle parole nel giorno della festa: “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37). E Pietro si avvicina a Giovanni e si abbracciano e piangono. E Giovanni conforta Pietro, senza parole abbraccia il fratello maggiore. Non può parlare, non capirebbe ora. Ci sono cose che non hanno parole. Bevi anche tu, Pietro, bevi quel sangue misto ad acqua, mescola alle tue lacrime il sangue del tuo Dio, del tuo Signore. Bevi, Pietro, lo Spirito che inizia a sgorgare su te e sui tuoi fratelli, tendi le mani sotto quel lavacro. Saranno le tue mani e quelle di Giovanni e Andrea e Matteo, le mani degli apostoli a confermare il popolo che Dio si è acquistato col sangue del suo Figlio. Saranno quelle mani a creare altri apostoli per sorvegliare e pascere il gregge di Gesù, finché Egli torni…
Le mani di Pietro sono passate anche sulla mia testa, quando il vescovo di Lucera - Troia, amministratore apostolico di Foggia – Bovino mi ha ordinato presbitero, il 14 maggio 1988. La voce di Pietro mi ha inviato qui a presidere quest’eucaristia.

Il 28 marzo 1213 Chiara degli Offreducci attendeva un segno da Dio, una conferma per quel desiderio che le infiammava il cuore: seguire il Vangelo come Francesco. Nessuna donna l’aveva mai fatto in quel modo, in quella civiltà fremente dove Maiores e Minores erano ben divisi e l’ordine sociale non accettava facili sconvolgimenti. E il segno venne. Il cuore di Pietro e di Giovanni e degli apostoli sussultò nel petto del vescovo Guido, che si mosse gentilmente verso quella fanciulla così bella e le donò il suo ramo d’olivo. “Vai Chiara, come la colomba della pace esci dall’arca della tua parrocchia, vola verso il mondo come Francesco”. E Chiara andò, senza voltarsi indietro … e Chiara è qui, in Africa.

Dovrò consultare qualche sito per verificare quante volte in otto secoli ci sia stata la concidenza della domenica di Passione col 28 marzo. Sicuramente poche. Ed oggi sono qui, a casa di Chiara, e sono anch’io Chiesa che danza, Chiesa che piange, Chiesa che beve, Chiesa che esulta, Chiesa che va.

E sono proprio io Chiesa che annuncia. Qui la gente ha un senso diverso del tempo. Qui neanche gli europei guardano l’orologio in chiesa. La badessa mi ha esortato a tenere la mia omelia tranquillamente. E l’omelia la faccio con Dante Alighieri e René Girard. Commedia umana la passione: commedia di viltà e tradimento, di menzogna e ragion di stato, commedia di iniquità. Commedia umana anche di pietà e compassione: Simone di Cirene e Veronica accanto a Giuda e Pilato, Giovanni accanto a Pietro, le donne accanto alla turba oscena e volgare. Come nella caccia alle streghe, come nei sacrifici umani degli Aztechi, come nei miti originari di molte civiltà che nascondono la violenza delle origini, come nel capro espiatorio che Israele invia a morire nel deserto l’innocente è condotto a morte. Eppure, dice Girard, qui cambia tutto. Dall’alto della croce il Figlio di Dio smaschera la menzogna: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”. Non è solo la bontà del Figlio di Dio. No. E’ la verità. Ti sbagli, Caifa, credendo sia necessaria la morte di un innocente per salvare Israele. Come si sbagliavano tutti quelli che hanno ucciso innocenti per salvare il villaggio, il clan, la tribù.

C’è sempre un diverso su cui versare le nostre angosce: immigrati, streghe, sorciers, ebrei, donne e omosessuali, bambini o storpi, vergini, cattolici o protestanti, neri, c’è sempre qualcuno che deve pagare per l’angoscia stupida degli uomini. Ti sbagli, Caifa, dice il Cristo dall’alto della sua cattedra di sacerdote eterno. Tu non sai quello che fai, come i sacerdoti aztechi e gli inquisitori del medio – evo, come i pastori puritani del Maine nel settecento e i sanculotti a Parigi, come le SS a Varsavia e il KGB di Stalin, come il Mossad contro i palestinesi.

Qui non c’è il capro espiatorio, il bouc emissaire, condotto a morte nonostante le sue urla, la sua disperata innocenza. Qui non c’è una vittima involontaria che non possa affermare la follia del vostro gesto, la sua ingiustiza cosmica. La Commedia umana è stata afferrata dalla mano di Dio onnipotente ed è divenuta Commedia divina. E’ sua l’iniziativa di questo pogrom. Nessuno prende la mia vita – dice Gesù – “Io offro la mia vita per riprenderla di nuovo” (Gv 10,17). La Vittima innocente si consegna volontariamente alla violenza degli uomini per sovvertirla: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”. Il capro maleodorante dal belato disperato è stato sostituito dall’Agnello di Dio. Egli non urla la sua disperazione contro una morte che non vuole. Egli sottomette al voto della sua volontà, della sua obbedienza al Padre, la libera adesione al sacrificio. E sta in silenzio, Gesù, dopo aver detto a Pilato: “Tu lo dici, io sono re!”. Tace il re, mentre sale sul suo trono. Nessuna parola rivolta ancora agli uomini presi dal loro insano, atavico furore. Solo una parola di pietà: “In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23,43). Poche altre parole, solo per il Padre: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). E il Padre perdona per primo al ladrone che sa quello che fa, sa quello che dice: “Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo regno!” (Lc 23,42). Beato, fratello ladrone. Beato, tu che ci rivesti di speranza. Tu ci confermi nella fede prima ancora che Pietro si sia ripreso. Con te noi tutti siamo entrati in paradiso.

Nell’ora delle tenebre gli uomini continuano ad esigere violenza. Israele continua a dire: “E’ meglio che muoiano i palestinesi anziché la nostra nazione” … e si sbagliano ancora, come Caifa. Dappertutto ancora si sacrificano gli innocenti. Anche alcuni tuoi preti lo hanno fatto, Signore. Hanno ucciso l’innocenza dei bambini affidati alle loro cure di pastori ed educatori. La Chiesa piange ancora per il loro peccato, come Pietro quella notte, la Chiesa ne ha il volto sfigurato. Non ti hannno visto, nella loro malattia, non ti hanno riconosciuto nella loro turpe follia.
Dal tuo costato aperto sgorgano sempre sangue ed acqua. Basta uomini con sacrifici innocenti. Basta con la paura. Abbiamo già l’unico sacrificio che basta a tutto il mondo: il Figlio di Dio, l’Agnello innocente è morto per noi. Ed Egli vive sull’altare. Piangete la vostra sciocca iniquità e venite, venite all’acqua e al sangue. Venite e lavatevi!

Usciamo dalla porta della chiesa di santa Chiara. La settimana santa è appena cominciata, ma siamo Chiesa con le labbra già socchiuse. Vieni Spirito Santo a portarci il canto perenne di Maria di Magdala e il suo grido di festa incontenibile: “Il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa!”.

Bangui – Bimbo, 31 marzo 2010

Sono arrivato ieri sera nel nostro convento di accoglienza a Bimbo. Qui c’è una sorta di cittadella cattolica: la sede della CECA, la Conferenza Episcopale della Repubblica Centrafricana, il Grand Seminaire, e la nostra casa. Tra poco costruiranno anche i Frati Minori OFM.
Ho già imbarcato la valigia. Air France, accanto a l’Institut Pasteur, è uno dei pochi posti in cui ti senti già un po’ in Europa. Il servizio è buono. L’aria è professionale, diversa, anche nel personale di colore, evidentemente selezionato, addestrato, che avrà respirato più volte l’aria di Parigi.
Quanto potremmo fare a livello di stile, di comportamento, d’immagine, noi italiani. Ma Lorenzo il Magnifico è morto da tempo. Abbiamo Berlusconi, che sembra più giovane ogni volta che lo vedi in TV … e l’alternativa è Bersani. Ahi, serva Italia!

Stamani ho concelebrato con Jean Mah, mio discepolo, presbitero da 3 mesi, presso le suore benedettine. La priora ci ha accolti, una settantina d’anni, bassina. Saluto in francese, poi ascolto il suo accento e dico: “Ma sei calabrese?”. Risponde: “No, pugliese!”. “Ah! E di dove?”, riprendo. E lei: “Di Andria!”. Nahhh! Insomma suor Assunta Tucci è andriese ed è venuta qui a Bangui tanti anni fa ad implantare il carisma di Benedetto e Scolastica. Penso a mia nonna, Giuditta Santovito, a suo padre andriese!
Jean mi ha chiesto di leggere il vangelo e predicare. Mi presenta come “son professeur de Droit Canon”. E’ uno dei migliori, se non il primo. Ho chiesto a fra Raffaele d’inviarlo a Roma per il Diritto Canonico.

Il calice è consumato. Occorre dorarne il fondo. Indovino che la povera suor Assunta non deve navigare … nell’oro. Le lascio qualcosa per il calice. Saluto due suore nigeriane, unico suo aiuto, e lascio i saluti per il Nunzio Apostolico, Jude Tadeus Okolo, che va a trovarle ongi tanto, anche come compatriota. Questa volta non lo vedrò perché è a Bossangoa, sede vacante, per la Messa Crismale.

Domani salterò la Messa in coena Domini, in buona compagnia. Viaggio infatti col Regionale dei Betarramiti e il suo Vicario. Stasera però celebro la Messa crismale col clero di Bangui e i miei fratelli.
Il vescovo di Bambary la presiederà. Anche Bangui è sede vacante. Su tre vescovi centrafricani (gli altri quattro della Conferenza sono europei) due sono stati “invitati” a dimettersi, tra cui il presidente della Conferenza episcopale, nonché metropolita di Bangui, Paulin Pomodimo. E non si son dimessi per “responsabilità oggettiva”, per culpa in vigilando, come la settimana scorsa i due vescovi irlandesi, ma per responsabilità propria e gravissima. Si tace per pudore e vergogna. E’ il volto della Chiesa che è stato sporcato da due successori degli apostoli.

E’ caldo, ma prima dello zenith si sopporta. Sento l’odore di casa. E’ bello partire. E’ bello tornare. A Dio piacendo. Più s’intensificano i controlli antiterrorismo, più i terroristi affinano le tecniche. Bisogna essere sempre pronti a morire. Mi confesserò da Mansueto …. Giusto per l’ultimo ritocco … ai baffi dell’anima. E sono pronto. Pronto per morire. Pronto per vivere. Certi miei confratelli, attaccati al “santo convento”, timorosi di esser trasferiti … mi fanno ridere, per non piangere. No. Non sono il fariseo al tempio. Sono un pubblicano gioioso, un commando di Dio. Disponibile a tutto, come suo Figlio … che si è fatto uomo. Dove tu vuoi, Signore. Quando tu vuoi. Finché vorrai. Amen.

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(Fonte: Antonio Belpiede, DIARIO AFRICANO)