DIARI DI VIAGGIO

ULTIMO GIORNO A PARIGI

Ultimo giorno a Parigi

Il mio consueto mese di studio si è ridotto a venti giorni a causa dei numerosi impegni. La metà di questo tempo è stata bruciata dallo sciopero dei trasporti. “Sono pazzi questi francesi”, dico parafrasando Obelix, l’amico erculeo di Asterix. Uno sciopero che si prolunga tanto, che non ha nessuna regolamentazione, né garantisce i servizi essenziali diventa un danno troppo grave per i tanti lavoratori, per i cittadini e i turisti. Indietro su molti fronti rispetto alla Francia, cominciando dai trasporti, l’Italia si è dotata di una legge migliore, che tiene presente l’interesse comune più che questo “corporativismo” che si auto qualifica “di sinistra”.

Così ho studiato francese con la mia insegnante che partiva alle cinque del mattino, nei giorni di sciopero, per raggiungere l’Alliance française dalla banlieu di Parigi. Non sono stato in pellegrinaggio al Louvre, non ho visitato nessun museo. Pellegrino per Montparnasse e il quartiere latino, eremita nel Luxembourg.
Ma questo è il mio ultimo giorno a Parigi, e alla luna piena è succeduto un sole chiaro che invita alla festa del sabato. Esco, con le scarpe da jogging, con lo zaino e il notebook per incontrare Parigi, per salutarla con affetto, per lasciarmi abbagliare dalle sue sorprese.

Café “Les editeurs”, Carrefour de l’Odeon, Paris, 24 novembre 2007.

Ho incontrato Federico De Moiana di Codogna stamani a rue Sufflot. Suo fratello Alessandro ha sposato una ragazza di madre … di Serracapriola. Ho benedetto le nozze in una cappella gentilizia della Brianza. C’est un petit monde! Parigi è carezzata da un sole incredibilmente dolce. La luce si spande con accenti che tendono alla tenerezza sul Boulevard Saint Michel. Con Federico e la piccola Olivia abbiamo preso un caffè vicino al Pantheon, poi passeggiato per i giardini del Luxembourg: Olivia spinta da suo padre come una piccola principessa sul trono mobile del passeggino, io perduto nella luce che si allargava con la medesima delicata potenza della creazione. Il laghetto, con i bambini che spingono piccoli velieri in perenne rotta da una sponda all’altra, il palazzo del Senato di Francia a cui si sovrappongono in edizioni plurime di fotogrammi veloci le schermaglie di d’Artagnan e degli altri moschettieri contro le guardie di Richelieu, vecchi signori al sole sulle comode sedie in metallo dallo schienale reclinato, giovani di diverse razze che parlano, si baciano, leggono, si lasciano carezzare da Parigi, entrano nel suo mistero, pensano di possederla, con il solito trito refrain della conoscenza occidentale e ne sono catturati, perduti nel ventre di Lutetia.
E’ stato Federico a dirmi del Café “Les editeurs”. Ero uscito di casa con la vaga intenzione di visitare la Moschea di Parigi e il “Palais du monde arabe”, ma quando Federico ha visto i miei occhi illuminarsi nel caffè di rue Sufflot, quando ha capito che ero attratto dal “parfait mariage” tra la ristorazione e gli scaffali di libri, tra il bicchiere di vino e il moderno notebook dello scrittore che tra il rosso evocativo della bevanda e il bianco della strada trafficata luminosa si lascia ispirare e scrive e sogna fama e morde la vita, mi ha detto: “Se ti piace questa roba devi andare al boulevard Saint Germain, al café “Les Editeurs”.
Ho percorso il Boulevard S. Michel, che mi è familiare come Corso Giannone a Foggia, ho girato a sinistra per il Boulevard S. Germain, direzione Place de la Concorde, ho camminato fino al carrefour de l’Odeon. Il café si è offerto ai miei occhi come un vecchio amico un po’ “agé” che mi attende per insegnarmi la vita. Sulla porta i piatti del giorno: insalata con indivia, salmone affumicato ed erbe aromatiche, costolette di agnello con patate ed erbe: ecco con cosa sposare una bella mezza bottiglia di Bordeaux, Chateau Lacombe – Medoc 2004.
Entro. Mi accoglie una bella ragazza “francese classico”, bionda, alta, occhi azzurri. “Fumatori o non fumatori?” , “Non fumeurs, merci”. M’introduce al piano superiore. Il locale è un trionfo di legno che, nella luce soffusa degli abat - jour di tessuto ocra, mi sembra quercia. Il parquet amplifica la sensazione di calore. Le cameriere sono tutte selezionate, vestite in nero con grembiule rosso. Le pareti sono rivestite di scaffali di legno onusti di libri e di ritratti degli editori che hanno creato questo caffè.

La direttrice di sala è una signora sotto i quaranta, occhi e capelli neri, portamento nobile, incastonata nell’ambiente come un diamante su una corona regale. La professionalità è senza sbavature, tutti sorridono. Diresti che non lo fanno solo per mestiere, ma perché si son lasciati prendere dalla bellezza e danzano al suo stesso passo, perché sono felici di servire bella gente in un ambiente bello, di servire buon cibo a gente tra cui, ogni tanto, qualcuno comincia a perdersi in uno schermo elettronico scrivendo di profumi, di colori, di sensazioni e di affetti, di dolori e ricordi e speranze, scrivendo la vita.
Tra l’indivia e l’agnello estraggo il mio nuovo notebook di men che due chili e comincio a scrivere. Sposto il computer, mangio l’agnello, rimuovo il piatto, riprendo il mio oggetto e scrivo. Ordino un dessert al cioccolato nero di Tanzania, riprendo il computer e scrivo. Sorseggio un Aberlour single malt e scrivo.

Alla mia sinistra la parete esterna si apre sul carrefour de l’Odeon. Ieri ho terminato l’ultimo romanzo di Patrick Modiano, Le café de la Jeunesse perdue, il cui centro spaziale è il café Conde, vicino al carrefour de l’Odeon. Non è un caso ch’io mi trovi qui. Sono a pranzo in un ristorante discreto, direbbe qualcuno. Sono caduto in un romanzo, dico io, o in un saggio su Parigi come terra di frontiera, Parigi che custodisce nel suo seno luoghi che sono “terre di mezzo”, grumi spazio – temporali dove le persone si avvicinano e George Bush e Bruxelles coi suoi burocrati farisei e massoni si allontanano. Parigi che ti accoglie nei suoi caffè e lascia che la tua Musa ti tocchi l’anima, e ti lascia scrivere senza fretta, comporre, sognare, tracciare linee per nuove cattedrali, generare una nuova filosofia e recuperare Aristotele per dare senso ai nostri giorni. La musica di Puccini si spande con forte tenerezza di dietro il teatro Odeon. La Boheme è nata qui. Soccombo ai tornanti del tempo. Le dita si muovono veloci sulla tastiera. Non posso incolpare due bicchieri di Bordeaux ed uno di whisky.

La direttrice di sala si muove svelta ed armonica. Le cameriere sono in sintonia. Qualcuno mi chiede se il pranzo è stato di mio gradimento, se possono portarmi il dessert. Sorridono, sorrido, rispondo di sì. Parigi è una Musa violenta. Solo certe donne possono toglierti la libertà con un semplice sorriso. Come uno schiavo “damnatus ad metalla” scrivo. Scrivo più svelto, come se Parigi mi frustasse, obbligato a creare. Non so cosa sto generando, ma respiro Parigi, respiro la vita, attorno a me, attraverso me, nel mistero dei segni che si allungano sullo schermo di nuova generazione retroilluminato, respiro il mistero della vita che si fa racconto. Merci Paris. Merci madame.

Boulevard Saint Germain – Rue de Rennes

Esco felice dal café e quasi sbatto contro gli agenti della Gendarmerie in assetto anti sommossa. Mi guardo attorno per non capitare sotto qualche manganello. La tensione c’è ma è leggera. La gente guarda. I gendarmi avanti a me iniziano a percorrere il carrefour de l’Odeon. L’urlo degli slogan studenteschi arriva dall’altra parte, all’uscita di rue de l’Ecole de Medicine. I militi che ho visto per primi stanno disponendosi nel quartiere per circondare i manifestanti in caso di degenerazione della manifestazione. Studio la situazione, mi avvicino, la gente si assiepa a una certa distanza, combattuta tra timore e curiosità. Gli slogan sono più forti. Si tratta di un gruppo non numeroso, una quarantina di persone, con alcuni cartelli e uno striscione. Il primo cartello parla di diritto allo studio. Penso siano di sinistra, quest’espressione è figlia primogenita del ’68, e l’abbiamo usata anche noi negli anni ’70. Il secondo cartello mostra un simbolo neofascista, simile a quello di Ordine Nuovo: il giudizio è ribaltato. Lo striscione, che ora riesco a leggere, fuga ogni dubbio: “Halte au blocage”, “basta con l’occupazione”. La Gendarmeria sembra esser lì solo come deterrente. Mi giro per immergermi ancora nel flusso di francesi e turisti del sabato pomeriggio. Mentre mi allontano e l’eco degli slogan si spegne risento la canzone di Leo Ferrè: “J’habite à Saint Germain de Pres”. Beh, sono nel suo quartiere.

Boulevard de Montparnasse.

Rientro a casa. Il boulevard de Montparnasse è ormai una delle strade della mia vita, più che la Ronda de Capucinos a Siviglia o Jane Street a Toronto. Ne vengo accolto come di consueto, mentre la gente affolla l’entrata dei numerosi cinema e i pedoni esprimono con una velocità media più alta dei giorni feriali l’ansia vigiliare di ritrovarsi, di gioire, di mangiare la notte del sabato.
La nostalgia mi aggredisce passando davanti a un ristorante delle catena “Hippopotamus”. Un giovane papà è seduto a tavola di fronte alla sua sposa, tra le braccia levate ha un bambino biondo di pochi mesi che si libra tra cielo e terra, tra lo sguardo invisibile del Padre celeste e quello luminoso di gioia del suo papà. E mi ritrovo sbalzato indietro di 47 – 48 anni, tra le braccia di papà, di mio padre Nicola Belpiede, il mio papà bellissimo nel fiore della sua trentina. Passo avanti mentre l’emozione improvvisa mi tocca il cuore. Non vedrò più il mio papà, non più su questa terra … allora torno indietro e guardo ancora dentro il ristorante: il bambino è ancora lì, con le braccia aperte mentre il papà lo solleva su e giù con la bocca aperta a fargli versi, a parlare la lingua di suo figlio fatta di “eeeehhhh, aaahhhh, vaaaaahhhh”. L’amore va sempre oltre le parole, tende sempre al gemito ineffabile. La madre si alza e prende il bambino dalle braccia del padre. E il bambino continua a sorridere, ad aprire la bocca, a lanciare sguardi di vita. Riparto. La nostalgia è pari alla gioia che quella famiglia che non conosco mi da. Papà è lì, tra la certezza storica e biologica della sua tomba, della pietra che la ricopre, della bella foto, del suo corpo che si decompone lentamente e la certezza di fede del nostro prossimo incontro in cielo, dove mi prenderà ancora tra le sue braccia, dove il Padre prenderà entrambi tra le sue. L’assenza è pari alla speranza. La nostalgia struggente non supera la dolcezza della memoria: le lacrime appartengono a entrambe.

La luna splende implacabile su Parigi. Ho voglia di andare a dormire, anche se è presto. Ma non ho visto Renato, il grande chef del ristorante “Il Nobile”, che è passato ad un altro locale. Lo chiamo, chiedo informazioni e m’imbarco sulla linea sei a Raspail, direzione Etoile, cambio a La Motte Piquet – Grenelle, direzione Creteil, scendo a La Tour Maubourg.
Appena dopo la libreria delle Edizioni Cerf, dei frati predicatori di San Domenico, il boulevard è tagliato da rue Saint Dominique, la rue Surcouf è la prima a destra. La Senna è vicina, l’aria è più umida,il ristorante è là. Si chiama semplicemente “Al Ristorante”. Mi accoglie un signore sui cinquanta, che mi taglia la parola sulle labbra: “Vous etes frère Antonio”. Gilles mi aveva conosciuto al Nobile, a Pigalle. Bon! Le mie relazioni parigine s’intensificano e crescono. Renato è in cucina, nascosto dietro i suoi baffi incredibili da bell’époque, ci abbracciamo, mi offrono vino bianco, mi presentano Martine, una signora di mezz’età. Non capisco se è la moglie di Gilles o una socia comproprietaria, non chiedo. Seduto nel retrosala c’è anche Antonio, abruzzese di Vasto, due passi da Serracapriola.

Parliamo, ricordiamo. La finestra che si apre tra il retro sala e la cucina per il passaggio degli ordini e dei piatti mi permette di ammirare Renato all’opera. Sposta casseruole e pentole con una velocità straordinaria, prende bottiglie, versa cognac su due aragoste, fiammata, sposta di fornello, versa salsa, la fiamma si spegne, versa salsa bechamelle su due piatti di ravioli. E’ uno spettacolo. Pronto. In tavola.
Madame Martine mi parla di Assisi, di San Francesco, vorrebbe visitarla. E’ la prima volta che mi capita, Parigi 2007 non è celebre per la fede cattolica. Renato vuole che benedica il locale, Gilles è dal lato “male non fa”, Martine afferma solenne: “J’ai la foi” – Io ho la fede. Faccio abbassare la musica, prego, preghiamo, benedico. Mi chiedono di fermarmi a mangiare, ma dovrei mangiare solo e non posso attendere di mangiare con loro dopo mezzanotte. Devo fare la valigia, domani volo verso Bari – Cassano Murge, il convegno coi miei frati e il ministro generale, fra Mauro. E poi ho ancora il cervello, se non la bocca, carezzato dal cioccolato di Tanzania del café “Les editeurs” e dal single malt. Li abbraccio: “Ci vediamo in Italia. O qui a Parigi” – dico -. “La prossima volta stai a mangiare con noi, devi venire a trovarci”.
Riprendo il boulevard de la Tour Maubourg. Passo dinanzi alla libreria Cerf. Torno verso la mia metro. Poca gente sui marciapiedi, chi è uscito è già nel ristorante o nel bistrot. Penso all’ultimo incontro. Anche nel centro di Parigi c’è gente che cerca Dio. Anche nella laica Parigi di inizio terzo millennio ci sono persone che credono, altre che attendono la Parola. E’ morto san Paolo nella Chiesa cattolica? E’ morto Antonio di Padova? S’è spento il ricordo di Bernardino da Siena? E che dire di Francois Xavier? Che dire della passione missionaria della piccola Thérese? La soglia dei cinquant’anni si avvicina. E’ tempo di bilanci e di progetti? Perché mi hai buttato da dieci anni in diverse parti del mondo per comunicare e predicare, mio Dio? Quanti ostacoli sono stati abbattuti dentro me. In più lingue il tuo servo riesce a parlare di te, Gesù di Nazaret, riesce a trovare la via nascosta, fuori dai grandi viali illuminati al neon, che mena al luogo racchiuso nel cuore di ogni uomo, quel luogo in cui a Parigi come in ogni città del mondo il fanciullo nascosto cerca te, Dio della vita, origine e destino, sorgente e delta d’ogni vivente.

Tu conosci, Gesù, il cuore e ogni capello dei miei fratelli d’Africa. Tu sai cosa dobbiamo fare nei prossimi anni perché Parigi possa tornare a bruciare d’amore per te. Affrettati, Signore. Non tardare. Non possiamo continuare a celebrare il tuo avvento ogni anno con le vetrine dei magazzini Lafayette, continuare a vergognarci di ogni simbolo cristiano. Sono stufo di vedere la “laicité à la française” divenire ipocrita tolleranza verso i musulmani e dedicare lunghi servizi alla TV e alla Radio per la “festa del montone”. Tu, Agnello immolato, tu che sei, che eri e che vieni. Tu, piccolo Dio – bambino, tu, Re dell’universo che comandi ai pianeti e agli elementi. Tu … vieni a pascere il tuo gregge. E mandaci! Maranathà. Vieni, Signore Gesù, vieni presto tra noi.

POSTFAZIONE

Volo Paris Charles De Gaulle – Bari 25 novembre 2007

Siedo al posto 15 F, accanto a me, 15 E, c’è Bianca, ricercatrice della Facoltà di Lettere dell’università di Bari. Abbiamo parlato di cose belle. Del suo e del mio amore per Parigi, dei suoi studi. Citazioni in latino e italiano, in francese e inglese, Jung e Rilke, Eliot e Belpiede, San Giovanni e Santa Teresa d’Avila, Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino.
Il mio scritto è già chiuso. Il mio ultimo giorno a Parigi già consacrato dalle mie note dettate alla tastiera … ma mi giro e mi colpiscono dei versi che Bianca sta leggendo alla mia destra


« possédé je suis
Corps et ame
Souffle et songe ».
Sono versi di André Velter.

FOGGIA, PROVINCIA DI PARIGI

Il salto c’è. Da Parigi a Foggia. Eppure le strade bagnate dalla pioggia sembrano uguali. Il mio amico ed io camminiamo lentamente nel rumore ovattato d’inizio dicembre. Undici gradi. Immagino lo schermo del mio Vaio che mi riporta le temperature di Toronto, Bouar, Parigi e Foggia: quattro città importanti per me (atteso che non mi danno l’amata-amata Cerignola!). Nelle ultime settimane la temperatura della Capitale francese e di quella … dauna erano spesso identiche o molto vicine: 14 e 14 gradi; 13 e 12; 11 e 11; 9 e 10. Parigi … “Lì fa freddo…”, sembra sentire un’antica mamma di Puglia. E io invece a togliere l’imbottitura sfoderabile del mio giaccone. C’era una volta il freddo e le stagioni. Oggi c’è la mezza stagione uguale per tutti, e il ricordo della neve e l’aria strana. Ma per gli americani “Kioto” è una parola forse tardo comunista, per i texani uno scherzo dell’ultima propaganda nazista (ricordo nella sua prima campagna elettorale il candidato presidente George Dabliu fare sfoggio delle sue conoscenze storiche in visita ufficiale in Canada, chiamando il Premier Jean Chretien col nome di “Petain”, il capo del governo collaborazionista di Vichy nella Francia occupata dai nazisti).

Foggia mi accoglie, pigra e devota, come sempre. I marciapiedi sono sempre sconnessi, con le mattonelle che attendono l’acqua per fare scherzi ai pantaloni con la piega perfetta tra i 3,5 e i 5 centimetri dei gentiluomini . A volte sono incatramati, così la pioggia forma solo piccole pozze negli avvallamenti dell’impresa raccomandata e tangentifera, che sono tuttavia meno infidi, perché visibili, della mattonella sconnessa che si muove sotto il peso del piede inzaccherandoti.

Cerco emozioni, girando in auto col mio amico Matteo. Cerco echi ispirativi come a Parigi. Niente. Foggia è piena solo delle mie memorie. La mia giovinezza, la freschezza dell’olio crismale sparso sulle mie mani si sente ancora su piazza Immacolata. Le voci dei ragazzi dell’ottantotto, i miei adolescenti oggi tutti sposati … tranne Nicola, che ci guarda dal cielo. Vedo sul piazzale i passi di Luisell, meno di centoventi giorni fa. Anche lei è in cielo. Che vuoto!
L’eco antica dei pastori abruzzesi che si fermano con le greggi alla dogana delle pecore si confonde con le voci dei funzionari del re di Napoli. Sul tratturo regio la polvere si posava raramente. Oggi lo hanno ingombrato di cabine elettriche, ci seminano il grano abusivamente. Quanti foggiani sanno che Fernand Braudel cita la dogana delle pecore nel suo magnifico libro sul Mediterraneo, La Méditerranée? Pochi, suppongo. Si accettano prove contrarie.

Poi sono passati i garibaldini, velocemente. Poi son venuti i funzionari del re piemontese. Non mi vengono in mente briganti foggiani. Sarà la mia ignoranza! Nella mia mente solo i lucani, come Crocco. O il concittadino Nicola Morra. Foggia non è una città famosa per l’epica. Il sangue per liberare i braccianti è stato versato 37 chilometri a sud- est, nella mia Cerignola. Qui nessuno sforzo, nessun fremito. I terrazzani continuano da secoli a raccogliere “fenucchille e cicurielle” in terre d’altri.

L’epica Foggia l’ha subita, dalle fortezze volanti americane, che hanno bombardato il popolo: donne, vecchi, bambini. Ma la convenzione di Ginevra, vigente all’epoca, non lo proibiva? Norimberga è solo per i nazisti. L’arcangelo san Michele non è sceso a processare i vincitori. Dopo il Cermis, dopo Calipari, e successo lo stesso.
Cerco un caffè, nel senso parigino … ma non c’è. I pub e i locali aperti hanno un'altra filosofia. In questa terra ti puoi perdere solo nel contatto con la natura: il mare, la collina, la prateria pugliese, il Gargano. La città, le città, non ti offrono oasi per alzare al cielo le tue elegie o i tuoi lamenti. Gli architetti non possono aprire i loro progetti sul tavolo di un bar e i filosofi e gli artisti son scappati, come i tornitori, verso Milano o il nulla. “Desidera qualcos’altro?” – ti chiede il cameriere dopo dieci minuti? E se hai finito devi andartene. Così a Roma, così in Italia.
Domenica si sposa a Roma un mio amico. Lunedì devo essere a Bari per le 16.30. Pensavo di prendere un treno … ma il primo dalla Capitale per la Puglia è alle 13.38, arrivo 18.05. Mando una mail di protesta a “Trenitalia”, solo per sfogarmi, non servirà a niente. Scusate arrivo ora dalla Francia, dove ho usato molto il treno. Da Parigi a Nantes, che è grande come Foggia, c’è un TGV ogni 40 minuti circa … Vorrei che Foggia fosse provincia di Parigi, anche Roma.

 

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(Fonte: Antonio Belpiede, TACCUINO FRANCESE)