RACCONTO LA STORIA

ARTICOLO DI FONDO 1/2020

SALVATI NEL DESERTO

 

“Ho imparato che, oltre allo spirito di questo tempo, è all’opera anche un altro spirito, e cioè quello che governa la profondità di ogni presente” (Carl Gustav Jung, Il libro rosso)

 

Lo spirito del tempo è uno spirito ovvio, conformista, mercantile, mutabile e superficiale. Pochi ragionatori, raffinati quanto spietati, inducono la gente, con un abile uso dei Mezzi di comunicazione di massa, ad adottare stili di vita che inducono a consumi per loro vantaggiosi. Lo spirito del tempo è spirito di massa, ma di una massa che non è più forza collettiva, ma piuttosto moltitudine di ipnotizzati, coltivati come androidi obbedienti per acquistare.

Lo spirito del profondo è quello che riporta l’uomo alla solitudine del suo essere, al gusto aspro del proprio Sé, che dopo esser disceso nelle viscere rende davvero capaci di un incontro fecondo con l’altro. Nel 1913, quando ha 38 anni, Jung consuma il suo distacco traumatico da Sigmund Freud. Verrà ostracizzato dalla comunità accademica, che idolatrava il maestro, lascerà l’insegnamento continuando a seguire, da medico psichiatra, pochi pazienti, e ad annotare e ordinare i suoi sogni e visioni. Fu un deserto di diversi anni per lui, che tuttavia lo traghettò a trovare la sua propria via, a nostro avviso molto più ricca e certamente più spirituale di quella meccanicista di Freud.

Il Libro rosso non è esattamente un libro letterario, non sembra scritto per altri, ma piuttosto per esternare e cristallizzare quel grido silenzioso che a volte fece pensare al grande scienziato di aver superato la soglia della follia. Mentre si stacca dal conformismo corporativo che gira intorno a Freud, il giovane medico svizzero scopre luoghi e dimensioni che lo costruiranno con una personalità forte, aperta al futuro e all’ignoto, libera e capace di liberare persone che soffrono. Scrive nel libro:

“Sesta notte. La mia anima mi porta nel deserto, nel deserto del mio Sé. Non pensavo che il mio Sé fosse un deserto, un arido e torrido deserto, polveroso e senza ristoro. Attraverso la sabbia cocente, avanzando adagio e sprofondando a ogni passo, il viaggio mi conduce, senza una meta apparente, alla speranza. Com’è tremenda questa landa desolata! Mi pare che la strada porti così lontano dagli uomini. Percorro la mia via, passo dopo passo, e non so quanto lungo sarà il mio viaggio”.

Ci concediamo un volo davvero audace, passando dalla prosa sanguigna e drammatica di Jung alla dolcezza dell’evangelista Luca: “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo” (Lc 4, 1-2).

Gesù non è il solo a inoltrarsi nel deserto. Sappiamo bene che suo cugino Giovanni vi risiedeva con frequenza. In epoca cristiana sarà il grande abate sant’Antonio a recarsi nel deserto egiziano, che grazie al suo esempio ascetico si popolerà di migliaia di anacoreti.

Sappiamo tutti, comunque, che il valore salvifico del deserto nasce dall’Antico Testamento. Jahve parla a Mosé dal roveto ardente e gli mostra il deserto come cammino di salvezza, pellegrinaggio di libertà e di consacrazione a Lui, Dio dei viventi.

 In connessione con l’esilio di Samaria in Mesopotamia (722 A.C) e di quello d’Israele in Babilonia (587 – 538 A.C) rinasce nella predicazione dei profeti il simbolo del deserto, percorso impegnativo di liberazione e di ritorno a Dio. Scrive Geremia: “Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora – Da lontano gli è apparso il Signore – Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele”.

Nel ciclo nuziale della Liturgia, anello di giorni diversi e splendenti che il Cristo infila all’anulare della Chiesa, il colore viola segna il tempo di Quaresima. Le ceneri sfilano tra le dita del sacerdote come la sabbia del deserto tra le mani dello sperduto viandante o del cercatore di Sé, come Jung. I popoli meglio nutriti e vestiti del mondo, di cui facciamo parte, corrono da troppo tempo verso le città, per costruire nuvole di aria irrespirabile. Elevano case rigide e talvolta oppressive, si ubriacano d’immagini e rumori. Il deserto abbatte con silente fragore l’inganno degli specchi delle illusioni, le quinte piene di perversi effetti speciali grondanti falsità che inquinano le nostre vite. A ciascuno di noi il Signore dice: “Ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. […] Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto” (Osea 2, 14 – 15).

La sabbia del deserto sembra elemento di morte, ma come Israele ci condurrà a libertà. Le austere ceneri e i digiuni preludono alla festa della vita, alle carni vivificanti e succulente dell’agnello pasquale, al vino della festa senza fine.

 

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(Fonte: L'AMICO DEL TERZIARIO)

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